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A inizio del ‘400 il poeta ed umanista Guarino da Verona (1374-1460) tradusse in latino un trattato del sofista greco Luciano di Samosata, vissuto nel II secolo d.C., un testo dimenticato per tutto il Medioevo che fu così recuperato e subito apprezzato per il suo contenuto etico e le qualità stilistiche.

Nel “Calumniae non temere credendum( =  Non bisogna prestar fede facilmente alla calunnia) l’autore aveva inserito anche la descrizione di un dipinto realizzato da Apelle di Efeso,  pittore di corte di Alessandro Magno, che aveva rappresentato il tema della calunnia ricorrendo a delle allegorie.

Il lavoro di Guarino da Verona, oltre che a restituire l’interesse per gli scritti di Luciano di Samosata, che all’epoca era noto più che altro per il Caronte e il Timone, fu anche ripreso da Leon Battista Alberti (1404-1472) che nel trattato “De Pictura” esortò gli artisti ad attingere dalle storie del passato narrate da poeti e scrittori, includendo proprio la Calunnia di Apelle.

Sebbene nei primi tempi il trattato “Calumniae non temere credendum” circolò solo nella stretta cerchia di colti umanisti, già verso metà del ‘500 faceva parte del bagagliaio culturale di letterati e artisti, diffusione favorita anche dalla pubblicazione di altre traduzioni tra cui quella di  Niccolò da Lonigo (1428-1524), unica fra tutte le traduzioni in italiano del XV secolo a essere pubblicata a stampa.

Sandro Botticelli e Raffaello Sanzio, così come diversi altri artisti dal Rinascimento in poi, non mancarono di elaborare questo tema che permetteva loro anche di far sfoggio della loro abilità tecnica e inventiva artistica. Inoltre incontrava il gusto di committenti dotti e quindi poteva essere un’occasione in più di lavoro.

Ma cosa raccontava il dipinto di Apelle descritto da Luciano?

Narrava per immagini una vicenda autobiografica, di una calunnia lanciatagli dal rivale pittore Antifilo, invidioso dell’onore che egli godeva presso il re Tolomeo e geloso della sua arte, che lo accusò di aver collaborato con Teodoto alla cospirazione di Tiro ai danni dello stesso re Tolomeo.

Tolomeo, prestando orecchie solo all’accusatore, senza indagare la veridicità o meno dei fatti, indignato condannò Apelle come traditore, che finì in prigione in attesa di avere la testa tagliata: fu salvato dall’intervento di un compagno di prigionia che lo scagionò davanti al re smascherando l’inganno perpetrato dal perfido Antifilo.

Anche il pittore fiammingo Maerten de Vos (1532-1603), la cui formazione avvenne in Italia principalmente nelle città di Roma, Firenze e Venezia, dove fu allievo del Tintoretto, affrontò queste allegorie nella tavola “La Calunnia di Apelle” che ho potuto ammirare durante la visita della mostra “Da Tiziano a Rubens: Capolavori da Anversa e da altre collezioni fiamminghe” tenuta nel 2019 presso Palazzo Ducale a Venezia.

Il dipinto presenta in allegoria i vari aspetti della calunnia, dal re con le orecchie d’asino alle figure che rappresentano Ignoranza, Sospetto, Maldicenza, Tradimento, Inganno, Invidia e Ingenuità, mentre altre figure hanno il compito di impersonificazione il riscatto attraverso il Pentimento, il Tempo e la Verità.

Di notevoli dimensioni, 180 x 113 c., realizzato intorno al 1594 il dipinto racchiude tutte le caratteristiche di questa allegoria che venne utilizzata, soprattutto in Italia dove molte furono le signorie e i ducati, come allegoria morale e didattica, e specialmente come monito per principi, signori e cortigiani, affinché non prestassero orecchio e fede alle false accuse.

Oggi potrebbe essere un monito rivolto a chi crede alle Fake News: cerchiamo di non assomigliare al re con le orecchie d’asino!

Marco Mattiuzzi – 24/05/2020

Gruppo Facebook “Pillole d’Arte”

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